giovedì 28 marzo 2013

Montalbano addicted



Non mi posso definire una “camilleriana” della prima ora, direi di no. Il modo in cui scelgo le mie letture è sempre un po’ casuale, non segue criteri precisi (prima o poi farò un post sull’argomento) e così, spesso, arrivo “dopo”, quando la novità non è più novità ed è già stata superata nella classifica dei best seller. Così, prima che cominciassi a leggerne i romanzi, il commissario Montalbano aveva al suo attivo già sette o otto indagini.
Poi è successo che, nell’ordine: un amico, con cui spesso ci si confrontava su musica e letture, perorasse fortemente la causa; in un’intervista a chiusura di un vecchio Salone del Libro, Daniel Pennac (tra i miei scrittori preferiti) parlasse di Andrea Camilleri come di uno degli autori più interessanti incontrati a Torino; casualmente scoprissi di avere i primi due romanzi della serie in casa.


Insomma, sono stata letteralmente presa per mano e portata a scoprire questo siciliano e il suo alter ego di carta. Morale della favola, ho iniziato a leggere La forma dell’acqua e il personaggio mi ha intrigato, sono passata a Il cane di terracotta e a quel punto l’innamoramento era tale che mi ha spinto in libreria per acquistare tutto il pubblicato fino a quel momento, racconti compresi, e da allora attendo con trepidazione la nuova copertina blu Sellerio tra le novità in libreria. Sperando che Camilleri non si stanchi mai del suo personaggio. Tant’è che ho stappato una bottiglia quando, ospiti da Fazio, Antonio Sellerio e Andrea Camilleri rivelarono che, per un romanzo pubblicato, ce ne sono altri quattro pronti nella cassaforte della casa editrice.

Quello che mi è sempre piaciuto di questi romanzi, la scintilla che ha acceso l’infatuazione, è il modo in cui sono disegnati i personaggi, fortemente caratterizzati senza però essere appiattiti a macchiette prive di spessore. Non è una cosa che si nota leggendo il singolo libro – anche perché non è questo il genere letterario che si presta a fare un tale lavoro introspettivo in 200 pagine – ma romanzo dopo romanzo prende forma l’evoluzione dei diversi personaggi, alle prese con difficili casi polizieschi e, soprattutto, con ancora più complicate vicende della vita quotidiana e di relazione. Così, Agatino Catarella, simbolo degli inetti raccomandati che popolano le pubbliche amministrazioni, rivelerà insospettate doti che lo faranno diventare un prezioso collaboratore molto amato dal commissario. Oppure, Mimì Augello, il vicecommissario “fimminaro” che è passato un po’ per tutti i letti di Vigata, compresi quelli altrui, metterà la testa a posto, si sposerà e farà un figlio, pur ricadendo ogni tanto nel vecchio vizietto, a volte anche con forti ripercussioni sul suo lavoro e sulla sua amicizia con Montalbano.

E poi c’è appunto lui, Salvo Montalbano, che dalla baldanza e sicurezza (quasi) granitica dei primi romanzi, farà “il giro di boa” e comincerà a sentirsi invecchiare e a interrogarsi su quanto lo hanno cambiato e lo stanno cambiando gli anni che passano. Comincerà a sdoppiarsi, a dialogare con un se stesso più crudele e disincantato, a volte pessimista, che lo metterà ogni volta di fronte ai problemi sempre più spinosi generati dal suo rapporto a distanza e un po’ incancrenito con Livia, la fidanzata di una vita, e dal suo sentirsi, e comportarsi, quasi come un corpo estraneo all’interno del pachidermico apparato burocratico e amministrativo, che ha il volto della questura di Montelusa ma la regia nei palazzi di Roma.
E proprio quest’ultimo aspetto, più volte descritto come il grande freno a mano della sua carriera, è il gancio che usa Camilleri per mettere i puntini sulle “i” e dare il suo giudizio, a volte tra le righe, a volte in modo decisamente esplicito, sull’Italia degli ultimi vent’anni, dal rapporto stato-mafia (ultimo in ordine di pubblicazione, Una voce di notte) al G8 di Genova, dalla legge Bossi-Fini agli sbarchi dei disperati sulle coste siciliane (Il giro di boa), dalle morti bianche (il racconto Il quarto segreto nella raccolta La paura di Montalbano) alla tratta delle schiave del sesso dall’Est Europa (Le ali della sfinge), dal traffico di organi (La gita a Tindari) fino addirittura a sfiorare, con grande delicatezza, la primavera araba e la rivolta dei gelsomini (Una lama di luce). Il tutto condito con una costante denuncia della mancanza di trasparenza delle istituzioni e del servilismo di parte dei servizi di informazione italiani, rappresentati dalla contrapposizione tra le due emittenti locali Televigata e Retelibera.
Non si tratta ovviamente dell’analisi profonda che si può trovare in un saggio o in un libro-inchiesta, e non è neppure questo il contesto, ma offre un punto di vista preciso, e ovviamente personale, su temi su cui è necessario prendere una posizione. Che è quello che fa Camilleri attraverso il suo personaggio, sia in quanto cittadino italiano con precise opinioni, sia in quanto rappresentante, di minoranza, di uno Stato che potrebbe essere e però non è.

Quello che però ha cementificato il mio legame con questi romanzi, devo dirlo, è stata la lingua usata per scriverli. Milanese, abituata alle sonorità lombarde, trovarmi improvvisamente a districarmi con frasi come “si mise a tambasiare casa casa” o “s’arrisbigliò d’umore nivuro” o “aveva gli occhi a pampineddra” non è stato facile. Anche perché non avevo un dizionario che mi spiegasse che “tambasiare” significa “girare per casa senza scopo, spostando oggetti e facendo passare il tempo senza svolgere nessuna attività in particolare”, o che mi illuminasse, finalmente, sul fatto che “macari” non vuol dire “forse, magari”, ma “anche”. Però, come tutte le cose conquistate con fatica, una volta che sono riuscita a impadronirmi di questo linguaggio così colorato ed espressivo, mi sono lasciata avvolgere.
Perché il bello della scrittura di Camilleri è che è parte integrante del racconto, incredibilmente naturale ed efficace, sempre in bilico tra un italiano dialettale infarcito di espressioni che con estrema sintesi esprimono concetti ben più ampi, il dialetto stretto e l’italiano standard. Cambi di registro sì repentini, ma che non risultano mai spiazzanti proprio perché caratterizzano un personaggio, il commissario, capace di comunicare in maniera funzionale e simpatetica con le alte cariche come con i burocrati o i poveracci, con l’unica eccezione, va da sé, della fidanzata Livia, con la quale le conversazioni subiscono sempre l’interferenza di parole apparentemente sbagliate.
Tanto che mi chiedo come risolvano il problema i traduttori stranieri, e mi sento molto fortunata a poterlo leggere in originale :-)



L’ultimo romanzo uscito, lo scorso autunno, è Una voce di notte. Decisamente godibile, anche se forse i miei preferiti sono altri, come La pazienza del ragno, Il giro di boa, La vampa d’agosto e L’età del dubbio.
Un consiglio per chi non ne ha mai letto nemmeno uno: partite dall’inizio e leggeteli in fila. Ne vale davvero la pena!

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