Non mi posso definire una “camilleriana” della prima ora,
direi di no. Il modo in cui scelgo le mie letture è sempre un po’
casuale, non segue criteri precisi (prima o poi farò un post sull’argomento) e
così, spesso, arrivo “dopo”, quando la novità non è più novità ed è già stata
superata nella classifica dei best seller. Così, prima che cominciassi a
leggerne i romanzi, il commissario Montalbano aveva al suo attivo già sette o
otto indagini.
Poi è successo che, nell’ordine: un amico, con cui spesso ci
si confrontava su musica e letture, perorasse fortemente la causa; in
un’intervista a chiusura di un vecchio Salone del Libro, Daniel Pennac (tra i miei
scrittori preferiti) parlasse di Andrea Camilleri come di uno degli autori più
interessanti incontrati a Torino; casualmente scoprissi di avere i primi due
romanzi della serie in casa.
Insomma, sono stata letteralmente presa per mano e portata a
scoprire questo siciliano e il suo alter ego di carta. Morale della favola, ho
iniziato a leggere La forma dell’acqua e il personaggio mi ha intrigato, sono
passata a Il cane di terracotta e a quel punto l’innamoramento era tale che mi
ha spinto in libreria per acquistare tutto il pubblicato fino a quel momento, racconti compresi, e
da allora attendo con trepidazione la nuova copertina blu Sellerio tra
le novità in libreria. Sperando che Camilleri non si stanchi mai del suo
personaggio. Tant’è che ho stappato una bottiglia quando, ospiti da Fazio,
Antonio Sellerio e Andrea Camilleri rivelarono che, per un romanzo pubblicato,
ce ne sono altri quattro pronti nella cassaforte della casa editrice.
Quello che mi è sempre piaciuto di questi romanzi, la
scintilla che ha acceso l’infatuazione, è il modo in cui sono disegnati i
personaggi, fortemente caratterizzati senza però essere appiattiti a macchiette
prive di spessore. Non è una cosa che si nota leggendo il singolo libro – anche
perché non è questo il genere letterario che si presta a fare un tale lavoro
introspettivo in 200 pagine – ma romanzo dopo romanzo prende forma l’evoluzione
dei diversi personaggi, alle prese con difficili casi polizieschi e,
soprattutto, con ancora più complicate vicende della vita quotidiana e di
relazione. Così, Agatino Catarella, simbolo degli inetti raccomandati che
popolano le pubbliche amministrazioni, rivelerà insospettate doti che lo
faranno diventare un prezioso collaboratore molto amato dal commissario. Oppure,
Mimì Augello, il vicecommissario “fimminaro” che è passato un po’ per tutti i
letti di Vigata, compresi quelli altrui, metterà la testa a posto, si sposerà e
farà un figlio, pur ricadendo ogni tanto nel vecchio vizietto, a volte anche
con forti ripercussioni sul suo lavoro e sulla sua amicizia con Montalbano.
E poi c’è appunto lui, Salvo Montalbano, che dalla baldanza e
sicurezza (quasi) granitica dei primi romanzi, farà “il giro di boa” e comincerà a
sentirsi invecchiare e a interrogarsi su quanto lo hanno cambiato e lo stanno
cambiando gli anni che passano. Comincerà a sdoppiarsi, a dialogare con un se
stesso più crudele e disincantato, a volte pessimista, che lo metterà ogni
volta di fronte ai problemi sempre più spinosi generati dal suo rapporto a
distanza e un po’ incancrenito con Livia, la fidanzata di una vita, e dal suo
sentirsi, e comportarsi, quasi come un corpo estraneo all’interno del
pachidermico apparato burocratico e amministrativo, che ha il volto della
questura di Montelusa ma la regia nei palazzi di Roma.
E proprio quest’ultimo aspetto, più volte descritto come il
grande freno a mano della sua carriera, è il gancio che usa Camilleri per
mettere i puntini sulle “i” e dare il suo giudizio, a volte tra le righe, a
volte in modo decisamente esplicito, sull’Italia degli ultimi vent’anni, dal
rapporto stato-mafia (ultimo in ordine di pubblicazione, Una voce di notte) al
G8 di Genova, dalla legge Bossi-Fini agli sbarchi dei disperati sulle coste
siciliane (Il giro di boa), dalle morti bianche (il racconto Il quarto segreto
nella raccolta La paura di Montalbano) alla tratta delle schiave del sesso
dall’Est Europa (Le ali della sfinge), dal traffico di organi (La gita a
Tindari) fino addirittura a sfiorare, con grande delicatezza, la primavera
araba e la rivolta dei gelsomini (Una lama di luce). Il tutto condito con una
costante denuncia della mancanza di trasparenza delle istituzioni e del
servilismo di parte dei servizi di informazione italiani, rappresentati dalla
contrapposizione tra le due emittenti locali Televigata e Retelibera.
Non si tratta ovviamente dell’analisi profonda che si può
trovare in un saggio o in un libro-inchiesta, e non è neppure questo il
contesto, ma offre un punto di vista preciso, e ovviamente personale, su temi
su cui è necessario prendere una posizione. Che è quello che fa Camilleri
attraverso il suo personaggio, sia in quanto cittadino italiano con precise
opinioni, sia in quanto rappresentante, di minoranza, di uno Stato che potrebbe
essere e però non è.
Quello che però ha cementificato il mio legame con questi
romanzi, devo dirlo, è stata la lingua usata per scriverli. Milanese, abituata
alle sonorità lombarde, trovarmi improvvisamente a districarmi con frasi come
“si mise a tambasiare casa casa” o “s’arrisbigliò d’umore nivuro” o “aveva gli
occhi a pampineddra” non è stato facile. Anche perché non avevo un dizionario
che mi spiegasse che “tambasiare” significa “girare per casa senza scopo, spostando oggetti
e facendo passare il tempo senza svolgere nessuna attività in particolare”, o che mi illuminasse, finalmente, sul fatto che “macari” non vuol
dire “forse, magari”, ma “anche”. Però, come tutte le cose conquistate con
fatica, una volta che sono riuscita a impadronirmi di questo linguaggio così
colorato ed espressivo, mi sono lasciata avvolgere.
Perché il bello della scrittura di Camilleri è che è parte
integrante del racconto, incredibilmente naturale ed efficace, sempre in bilico
tra un italiano dialettale infarcito di espressioni che con estrema sintesi
esprimono concetti ben più ampi, il dialetto stretto e l’italiano standard. Cambi
di registro sì repentini, ma che non risultano mai spiazzanti proprio perché
caratterizzano un personaggio, il commissario, capace di comunicare in maniera
funzionale e simpatetica con le alte cariche come con i burocrati o i
poveracci, con l’unica eccezione, va da sé, della fidanzata Livia, con la quale
le conversazioni subiscono sempre l’interferenza di parole apparentemente
sbagliate.
Tanto che mi chiedo come risolvano il problema i traduttori
stranieri, e mi sento molto fortunata a poterlo leggere in originale :-)
L’ultimo romanzo uscito, lo scorso autunno, è Una voce di
notte. Decisamente godibile, anche se forse i miei preferiti sono altri, come La
pazienza del ragno, Il giro di boa, La vampa d’agosto e L’età del dubbio.
Un consiglio per chi non ne ha mai letto nemmeno uno: partite
dall’inizio e leggeteli in fila. Ne vale davvero la pena!
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