E finalmente dopo un incredibile e colpevole ritardo, come
strenna natalizia anticipata arriva la recensione, che avevo promesso qui
e qui. E che sembra ormai fuori stagione, come un microbikini in valigia per andare a passare il capodanno sulle Alpi, ma che ci volete fare... mi ero intestardita
a scriverla, quindi eccovela!
Come credo di aver già ripetuto in più occasioni, ho da sempre una vera passione per i romanzi polizieschi e appunto ne ho letti tantissimi, soprattutto di autori stranieri. Avevo però una grossa lacuna da colmare a proposito dei due capiscuola della detective story all’italiana. Insomma, confesso che di Fruttero e Lucentini non avevo mai letto niente. O meglio. Di Carlo Fruttero avevo letto uno degli ultimi romanzi, questo, che avevo visto presentare da Fazio all’epoca dell’uscita in libreria. In quell’occasione ero rimasta letteralmente affascinata dall’autore, così avevo comprato il libro, lo avevo letto d’un fiato e in quel momento avevo deciso che dovevo approfondire la conoscenza e scoprire i primi romanzi, quelli scritti a quattro mani.
L’occasione è arrivata quest’estate quando al mare, su una
bancarella di libri usati, ho trovato un’edizione economica de La donna della
domenica e nel retrocopertina ho letto trattarsi di uno dei classici della
premiata ditta F&L. Visto, comprato, letto.
La storia si svolge nell’arco di una settimana del mese di
luglio, in un’afosa Torino dei primi anni Settanta, quando i suoi abitanti si
trascinano stancamente tra casa, lavoro e avvenimenti mondani anelando alle
prossime ferie d’agosto. In questo contesto, le vite di un piccolo gruppo di
personaggi, impiegati, borghesi, ricchi aristocratici, vengono improvvisamente
scombussolate dall’omicidio dell’architetto Garrone, un uomo di mezza età,
disoccupato, viscido e volgare, un arrivista che vive ai margini della Torino
bene desiderando disperatamente far parte di quella élite dalla quale è più o
meno tollerato. Il delitto, apparentemente scaturito nel sordido ambiente della
prostituzione e del sesso mercenario, scoperchia infatti un vaso di Pandora che
rivela come le cose non sono mai quello che sembrano.
L’indagine, del resto, non è che un pretesto per raccontare
piccoli vizi, manie e ipocrisie di una società e di una città, Torino, negli
anni del boom economico. Così, la bella moglie dell’imprenditore, che finge di
non sapere che il marito ha un’amante, si crogiola nei suoi monologhi interiori riflettendo sulla migliore immagine da dare di sé agli altri e anche a se
stessa. Il gallerista d’arte, che frequenta il mercato delle pulci alla ricerca
di cornici a basso costo, se ne vergogna e teme di farsi notare dai propri clienti e conoscenti che affollano le stesse bancarelle. Poi ci
sono gli amici del ricco e giovane single, che fingono di ignorarne l’omosessualità.
C’è il giovane impiegato comunale, con velleità da intellettuale, che fa a gara
con i colleghi sulle mete più esotiche e avventurose in cui passare le vacanze
e cerca disperatamente un riscatto sociale ai loro occhi. C’è il critico di
letteratura americana immaturo e un po’ paranoico, che vive con gli anziani
genitori e si perde in schermaglie intellettuali, probabilmente immaginarie,
con colleghi che mal digerisce. Ci sono le due anziane sorelle che vivono
barricate con una vecchia domestica in una villa in collina, “assediate” dal
traffico notturno di prostitute, clienti e protettori che hanno scelto i loro
terreni come luogo di commercio. E infine c’è il commissario, meridionale
trapiantato a Torino, che di questo mondo non fa parte ma che è riuscito a
capirlo e a farsi accettare. E che quindi in questo mondo riesce a muoversi con
disinvoltura, fino ad arrivare alla soluzione del caso.
L’intreccio poliziesco, insomma, diventa il veicolo di una
narrazione più profonda e ricca, in cui il profilo psicologico dei diversi
personaggi è tratteggiato in modo rapido, fresco e nitido. E in cui emerge come
protagonista vera questa Torino divisa tra retaggi sabaudi e incalzante, ma non
sempre gradita, modernità. Una Torino che, dopo questa lettura, finalmente mi
attira – non me ne vogliano i Torinesi, ma l’ho sempre percepita come una città
un po’ grigia e triste – e mi chiama. E se un romanzo genera il desiderio di approfondire, di scoprire e di conoscere, secondo me, è
un romanzo che sicuramente merita di essere letto.
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