In realtà stavo preparando un altro post per oggi. Solo che
ieri sera, guardando Gramellini a Che tempo che fa, ho sentito per la prima
volta parlare di Isabella Viola e della sua storia, passata un po’ in sordina
sui giornali e i quotidiani nazionali. Questa donna aveva più o meno la mia
età. Ed è letteralmente morta di fatica. Nel 2012. In Italia. Non in Africa,
non nel terzo mondo. È morta di fatica in un paese che fa parte del G8, che
nonostante spread, triple A che vengono messe e tolte come cappotti, un Pil
terrificante e un sacco di problemi, rappresenta comunque una delle principali
economie mondiali.
C’è la commessa di negozio, che inizia il turno a
mezzogiorno, fa la pausa a metà pomeriggio, finisce la sera tardi e non riesce
mai a fare davvero un pasto decente. Che lavora tutte le domeniche perché il decreto
Salva Italia ha liberalizzato gli orari degli esercizi commerciali, e il suo
titolare non aspettava altro. Che salta le ferie e non conosce più giorni di
riposo, perché c’è carenza di personale. E se non le sta bene può stare a casa
per sempre. E ovviamente non può permetterselo.
C’è la madre di famiglia, di figli ormai grandi, che non ha
mai avuto un vero contratto di lavoro e che si arrangia andando a pulire case e
uffici. E che non può sperare in nessuna pensione anche se sono più di trent’anni
che lavora, perché nessuno le ha mai pagato contributi. E poi tanto nella
pensione ormai non ci può sperare quasi nessuno.
C’è la parrucchiera costretta a chiudere il salone e a
lavorare a domicilio per potersi occupare al contempo anche dei figli,
costretta a mantenere il marito che lavora un po’ sì e un po’ no e che a un
certo punto la molla e sparisce, forse con un altra. Portandosi via risparmi e
lasciando debiti. E succede che magari lei impazzisce. Letteralmente. E viene
sottoposta a Tso.
Ora c’è un quartiere che si è mobilitato, che ha avviato una
colletta per aiutare figli e marito di Isabella Viola e anche l’amministrazione
di Roma, dopo l’articolo del Messaggero, ha dato la sua disponibilità per
aiutare questa famiglia. Perfetto. Bellissimo. Però...
Però c’è qualcosa che stona. Perché la colletta di quartiere
è la risposta che i poveri danno per sopperire alla latitanza dello Stato,
mentre le profferte delle amministrazioni sono, come sempre, un’elargizione col
contagocce, una sorta di carità pelosa che scaturisce soltanto dopo l’interessamento,
anche questo peloso, della carta stampata. Che regala l’illusione che questo
sia un caso isolato, una storia triste a cui però si può mettere una pezza, così
tutto si aggiusta, tutto torna ad andare bene.
Continua a mancare, invece, una risposta ampia, un sistema
sociale che prevenga queste situazioni, una riforma del lavoro che sia fatta
per aiutare i lavoratori e non per aiutare il Pil. Perché oggi pur di lavorare
si può accettare tutto e si accetta davvero tutto. Fino a morirne di lavoro.
Chi ce l’ha. O a morire di fame, per chi il lavoro non ce l’ha. Ma se il
risultato finale è uguale, forse, non c’è qualcosa che non va?
Bello, toccante, vero.
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