martedì 4 dicembre 2012

Se di lavoro si muore



In realtà stavo preparando un altro post per oggi. Solo che ieri sera, guardando Gramellini a Che tempo che fa, ho sentito per la prima volta parlare di Isabella Viola e della sua storia, passata un po’ in sordina sui giornali e i quotidiani nazionali. Questa donna aveva più o meno la mia età. Ed è letteralmente morta di fatica. Nel 2012. In Italia. Non in Africa, non nel terzo mondo. È morta di fatica in un paese che fa parte del G8, che nonostante spread, triple A che vengono messe e tolte come cappotti, un Pil terrificante e un sacco di problemi, rappresenta comunque una delle principali economie mondiali.

Una storia che sembra il simbolo di una condizione che accomuna tanti di noi che ci dimeniamo in questo stagno melmoso che è diventato il nostro paese. Così c’è il dipendente di piccola e media impresa caricato di responsabilità, lui che non è il padrone, caricato di impegni e di mansioni da svolgere, che lavora per due, ma pagato appena poco più degli altri. Spremuto fino al midollo, “costretto” a lavorare 18 ore al giorno, a rinunciare alle ferie, ai weekend, alle ore di sonno. Fino a che un infarto se lo porta via.

C’è la commessa di negozio, che inizia il turno a mezzogiorno, fa la pausa a metà pomeriggio, finisce la sera tardi e non riesce mai a fare davvero un pasto decente. Che lavora tutte le domeniche perché il decreto Salva Italia ha liberalizzato gli orari degli esercizi commerciali, e il suo titolare non aspettava altro. Che salta le ferie e non conosce più giorni di riposo, perché c’è carenza di personale. E se non le sta bene può stare a casa per sempre. E ovviamente non può permetterselo.

C’è la madre di famiglia, di figli ormai grandi, che non ha mai avuto un vero contratto di lavoro e che si arrangia andando a pulire case e uffici. E che non può sperare in nessuna pensione anche se sono più di trent’anni che lavora, perché nessuno le ha mai pagato contributi. E poi tanto nella pensione ormai non ci può sperare quasi nessuno.

C’è la parrucchiera costretta a chiudere il salone e a lavorare a domicilio per potersi occupare al contempo anche dei figli, costretta a mantenere il marito che lavora un po’ sì e un po’ no e che a un certo punto la molla e sparisce, forse con un altra. Portandosi via risparmi e lasciando debiti. E succede che magari lei impazzisce. Letteralmente. E viene sottoposta a Tso. 

Ora c’è un quartiere che si è mobilitato, che ha avviato una colletta per aiutare figli e marito di Isabella Viola e anche l’amministrazione di Roma, dopo l’articolo del Messaggero, ha dato la sua disponibilità per aiutare questa famiglia. Perfetto. Bellissimo. Però...
Però c’è qualcosa che stona. Perché la colletta di quartiere è la risposta che i poveri danno per sopperire alla latitanza dello Stato, mentre le profferte delle amministrazioni sono, come sempre, un’elargizione col contagocce, una sorta di carità pelosa che scaturisce soltanto dopo l’interessamento, anche questo peloso, della carta stampata. Che regala l’illusione che questo sia un caso isolato, una storia triste a cui però si può mettere una pezza, così tutto si aggiusta, tutto torna ad andare bene.
Continua a mancare, invece, una risposta ampia, un sistema sociale che prevenga queste situazioni, una riforma del lavoro che sia fatta per aiutare i lavoratori e non per aiutare il Pil. Perché oggi pur di lavorare si può accettare tutto e si accetta davvero tutto. Fino a morirne di lavoro. Chi ce l’ha. O a morire di fame, per chi il lavoro non ce l’ha. Ma se il risultato finale è uguale, forse, non c’è qualcosa che non va?

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