Non so. La levata di scudi della stragrande maggioranza dei
direttori e giornalisti di punta italiani in difesa di Sallusti un po’ mi
preoccupa e mi spaventa. Come se in pericolo ci fosse davvero la libertà di
opinione e di stampa e il direttore del Giornale fosse l’agnello sacrificale che
emenderà questa Italia dal regime totalitario della magistratura rossa.
Personalmente credo che se l’Italia si trova attualmente al
61° posto della classifica di Reporter Senza Frontiere – preceduta da numerosi
stati sudamericani, asiatici e africani tra cui la Corea del Sud e la Nigeria –
la colpa vada ricercata altrove. E certo la libertà di stampa non si misura con
la possibilità di diffamare. Perché, alla fine, di questo si tratta. Le
condanne in primo e secondo grado, confermate dalla Cassazione, non sanzionano
certo lo stile, il taglio e certe opinioni iperoscurantisti, ultracattolici e
vagamente veterofascisti di cui il pezzo a firma Dreyfus (e la scelta dello
pseudonimo è quantomeno discutibile) è abilmente infarcito.
La magistratura ha
rilevato che, semplicemente, in quell’articolo sono stati raccontati fatti non veri, anzi smaccatamente falsi. Che non sono, poi, mai stati rettificati dal
quotidiano. Poco importa che, con un grandioso coup de théatre e al riparo della sua carica da parlamentare, Renato Farina abbia infine confessato di essere lui l'autore dell'articolo.
Il direttore è e rimane “responsabile”. Fa parte del suo ruolo,
è scritto sul colophon. Rientra nello stipendio, profumatissimo, che percepisce.
Il direttore detta la politica editoriale. Controlla che i suoi giornalisti si
attengano a questa linea. Che rispettino la deontologia professionale. E che
quindi, magari, verifichino le notizie prima di darle in pasto alle rotative.
Sallusti ha accettato di pubblicare una vera porcata. E ne è responsabile. E ne
deve comunque rendere conto. E pagare.
Si può discutere sull’opportunità o meno di mandare
in carcere chi si macchia del reato di diffamazione, preferendo multe, ammende, lavori forzati o socialmente utili. Ma resta intatta la
responsabilità di chi ha “sbattuto il mostro in prima pagina” senza verificare
che esistesse davvero. E questo con la libertà di stampa e di opinione ha ben
poco a che vedere.